A vent'anni è facile ammazzarsi. Basta un accordo, che tu lo suoni o che lo ascolti, una chitarra o una tastiera vintage.
A quarant'anni, a ben vedere, è uguale.
Solo che i freni mordono di più. E inoltre, a ben vedere, tu sei più vintage del tuo garage.
Cominci a chiederti, a quel punto, quand'è che hai cominciato a chiederti perché.
Ti sembra ieri.
Per farla facile sei maschio, e allora giocoforza ad una donna tornerai - quella con cui, va da sé, non sarai stato mai.
E non le chiederai ragioni né pigioni: ti fermerai sull'uscio dell'angoscia, se va bene, e non sarai importuno, timido e gratuito.
Le volte, le troppe volte che hai ceduto non è servito ad altro che all'ipertrofia del nulla, né quindi cerchi culla alcuna al tuo parlare invano.
E d'altra parte.
Chi potrebbe.
Chi saprebbe.
Chi vorrebbe dare fiato alla mostruosità del fato?
Nove miliardi sono fin troppo faticosi a scriversi, figurati capirli, prenderli, vederli.
Non scherziamo.
Sarebbe così bello dire tutto - ma la pelle, perdio, tutta la pelle...
Non sono mai riuscito a scrivere un diario.
Da agnostico mi è ostico riconoscere i miei santi, ma tanti errori non bastano all'afrore: occorre invece soltanto una parola, taciuta o detta nella fretta.
Con questo dovrei avere soddisfatto la sete di ruggine alle sbarre, e torno al bianco declinato nei decenni.
La fisica donata al popolo soccorre: il bianco essendo la somma dei colori, è quanto più distante dal vuoto circostante. Evidentemente non bastava.
Ricomincio e rifinisco.
Il bianco, dicevo, non è il vuoto. O perlomeno non è la sua paura.
Sa bene il fumatore che il bianco è la cartina presto piena di tabacco.
E tuttavia c'è bianco e bianco, anche a non essere creativi dell'ultimo prodotto per bucato.
Lo specchio, ad esempio, non è bianco, ma l'iride vi annega facilmente, immemore di quanto la circonda - e vorrei pure vedere quell'occhio che si guarda, teoria dell'infinito speculare senza fine e senza inizio.
Punto e a capofitto.
Dicevo, il bianco è un'altra storia, parente stretta di quell'aporia demente e insufficiente - la recita dell'egida cadente, la svista dei molteplici punti e virgola di vista, l'apostrofo di oroscopi fallaci e di fin troppo esatte cronache mondate del nero macilento dei silenzi.
Profondi girotondi.
Tornare indietro, certo: presunta scorciatoia sull'avanti - o stare fermi, fin quando almeno le tue labbra sono rosa, piene e morbide di gioia, e precedevi le mie malinconie facendo di pozzanghere i laghi di consenso a posteriori, conditi dell'afflato di agnizioni inaspettate.
I miei occhi chiusi.
Qual è il timore che incoraggia le mie fughe?
Quale la corda che ti scioglie?
Qual è il torto che ha ragione?
Quale perché risponde infine al come?
Aspettando un moto carsico o una pioggia di meteore che spazzi via l'inutile ciarpame che, pur centellinando, ho sin qui disseminato, rispolvero una lunga attesa ripagata appieno.
Sei anni, da un certo punto in poi, sono più o meno come ieri, ma questo è l'intervallo che separa Era Vulgaris da ...Like Clockwork: ... Come l'olio, tradurremo a braccio. Ed è appropriato.
Di tutto il furore abrasivo generosamente erogato, con minime quanto gustose variazioni, nella vita precedente dei Queens of the Stone Age, qui non vi è che la sottotraccia appena udita in qualche riff, in qualche effetto o in qualche stop&go.
La saturazione si raggiunge più con i colori che con le pietre, e immagino che facilmente alcuni resteranno a bocca asciutta.
Non del tutto a torto, se si è incrollabilmente fautori del tutto e subito, ma due obiezioni vanno poste senz'altro: l'esperienza matura/ta via Them Crooked Vultures, che già lasciava presagire smussamenti e limature da un lato; e dall'altro la non chimerica speranza che Mr. Homme, innegabilmente coagulo di questa mirabile e mutevole entità, saprà virare ancora, tra sei mesi o anni o lustri, verso scogliere qui doppiate con maestria, e stuprare i nostri timpani assetati.
Per intanto, la sua voce che, negli anni, ci ha incantato sempre più, svettando finanche sulle rasoiate delle sue improbabili chitarre: che gli dei ce lo conservino.
... e appena troppo tardi capisci quanto è tardi per capire. Sarà dovuto a quello che non mitiga la chimica, quei cardi a vedersi così belli eppure pungono, parole sparse al vento che semina gramigna, la gioventù bucata e l'altra spada, ma vedi - quale che sia il modello dell'atomo prescelto, è sempre troppa o troppo poca l'energia, digrignano orbitali paralleli, concentriche minacce di carezze non intese, variabili diamesiche perdute nell'ipostasi del tuo caduco amore.
Perché la guerra è necessaria, ma non sufficiente, risposta errata alla domanda giusta o magari viceversa - di fatto e senz'appello, ingiusta, insufficiente, inutile e perversa.
Un po' come la somma di tante mezze vite, che mai faranno una.
L'esatta percezione dei fetori
al cambio di stagione
e tutte le parole altrui,
il predicare dei periodi bui,
il tenue gelsomino soffocato,
l'afrore di profumi dozzinali,
le tacite dozzine maciullate,
la turgida cagnara -
tirannide di codici genetici
con cui non fare i conti
all'ombra di semiotiche cadenti.
... ma tempo addietro ho appeso i fogli al chiodo, o la penna al muro, o quello che vi pare.
Occorrerebbe, sembra, fornire una cornice qualsivoglia, riferimenti sparsi, punti cardinali o quantomeno di partenza.
Come fare.
Andrea Pazienza?, la sua zoommata in "Un'estate"?, il cemento di chi ricorda ancora i fastigi verdeggianti del grigio cementizio delle estati solitarie?, il lento accumularsi del lessico avvenire?
Basta là.
Talune radio ripetono vinili mai graffiati - lanuggine del tempo accumulato.
Noialtri siamo "fortunati": basta lo specchio, e siamo vecchi a sufficienza.
Anche di più.
Le troppe morti accumulate nel cammino della vita ridonano emozioni, o almeno mute eco delle stesse, quanto occorre a presentire il pallido avvenire delle lune storte.
Facciamo un passo indietro.
Facciamo finta che ci sia una sola lingua.
Allora non occore dire quanti anni sono andati sotto i ponti - la fisica distanza, a volte, si confonde con la flebile continuità binaria, e il web aiuta: gli amici sono amici sono amici sono amici. E ritrovarsi a lustri di distanza non si tinge di finte simiglianze, il tempo passa e trita, maciulla, frantuma vicinanze e dona lontananze inopinate, o forse presentite.
O mai dimenticate.
Basta poco, se va bene.
Altrettanto, se va male.
Ma non confondiamo i piani.
Vengo qui a dipingere l'acuto alternativo del tuo cipiglio bruno, il chiodo conficcato in molteplici pareti delle tue pupille luminose ancorché nere come notti sconosciute, il tuo sorriso sbilenco e lampeggiante sottintesi sempre esplicitati da rapide battute - quello che sapevo, quello che mi mancava, un altro me, magari, ma non solo.
Il tenue tepore di una tavola imbandita di ataviche emozioni senza nome, lo scambio analfabeta di titoli e raggiri, un altro giorno.
Dico: è stato bello.
Ma poi ti chiedo: vedesti come me quei movimenti fluidi, precisi e senza tempo di colei, dirimpettatia senza nome e senza volto, che giungeva alla finestra dal vetro zigrinato aperto quanto basta, il palmo della vita, sfilarsi le mutande prima a destra e poi a sinistra, il braccio liberato troppo tardi per depennare l'attimo della visione triangolare e senza tempo?
Non te l'ho chiesto allora per non rovinare l'attimo, per non sporcare l'assoluto con trite battute da voyeur d'accatto - quali sarem(m)o ma non siamo: che perfezione a colmare perfezione.
Ho vissuto a lungo nei pressi di un fiume.
Puzzava e puzza da morire.
Putrefazione e chimica industriale.
Ma solo a raccattare sassi nei suoi pressi, ad otto anni o giù di lì, credendoti una giovane marmotta a caccia di pepite.
Se no, nei lustri successivi, è appena il suono delle notti insonni, il cemento baciato dalla luna, il lento respiro dei cetacei che crepano in silenzio.
Tra l'una e l'altra sponda, tra un taglio di capelli e l'altro, ti imbatti ignaro in questo tizio, sul finire del secolo passato - e non capisci un cazzo di quello che sussura, non gli conosci età, sai solo che da troppo tempo è morto, e tu dormivi.
Ma il tempo dispari fa i conti coi tuoi pari
e facilmente gli archi sono ponti
alle vertigini del tuo deambulare.
È primavera quando senti fame e sete, e il verde un buco nero nei ricordi.
Ma senz'alcuna pillola le cose
semplicemente accadono,
sorridi quando credi di crepare,
insistono le suocere,
le vipere sdentate ed i facoceri,
i numeri sommati ad altri zeri
l'altroieri,
ti giri sul cuscino ma non c'eri,
dimentichi la soma dei poderi
e tutta quella polvere
si accumula sul tuo desiderare,
le foglie di un monotono
domani seppellito tra le rose.
I panni non asciugano, ferisce ogni goccia come chiodo e quello che non odo fu già detto, dimenticato a un tratto, e questa fame di cane bastonato senza posa non riposa, spirale del non detto eppure udito, parentesi non chiusa -
che vale far le fusa a tempi alterni se rimaniamo fermi.
[Perché certi giorni sono come i brani di costoro: dolciastri, inutili e irritanti - ma qualcosa va salvato, coccolato, ricordato].